Dal 15 luglio si applica in Italia gran parte della nuova disciplina contenuta nel decreto legislativo 24/2023 in tema di protezione del whistleblower, ovvero di colui che segnala condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza nell’ambito del proprio contesto di lavoro, tanto pubblico quanto privato. Restano non ancora applicabili (lo diverranno il 17 dicembre prossimo) le norme riguardanti gli obblighi indirizzati in materia agli enti privati con dipendenti compresi fra i 50 e i 249.
Sembra utile in questa fase mettere in evidenza le criticità che emergono da tale contesto normativo, così da renderne avvertiti gli operatori del diritto e tentare di orientare la prassi applicativa del decreto legislativo in questione, che è stato adottato al fine di dare adempimento a una direttiva dell’Unione europea e ha scelto di innovare anche rispetto alla precedente legge italiana n. 179 del 2017 sulla «tutela degli autori di segnalazioni». Vanno cioè cercate soluzioni capaci di superare le criticità anche tenendo conto dello spirito sotteso alla normativa europea.
Già la scansione temporale appena descritta è la manifestazione vorremmo dire plastica di una prima criticità, ovvero della frammentarietà dello “statuto” di tutela del segnalante appartenente al comparto privato: una frammentarietà che non ha soltanto una dimensione legata al dato quantitativo (l’ente deve avere almeno cinquanta dipendenti; poi facendosi differenza tra quello che ne ha fino a 249 e quello che ne ha di più) ed è, questa, una frammentarietà colmabile al sopraggiungere del 17 dicembre – questo dice il decreto legislativo – almeno rispetto a enti con dipendenti compresi fra i 50 e i 249.
Ben più problematico è il dato qualitativo, che potremmo così sinteticamente schematizzare: il segnalante che appartenga a un ente dotato di una disciplina di gestione, organizzazione e controllo (sul tipo del cosiddetto “modello 231”, previsto dal d. lgs. 231/2001 sulla responsabilità degli enti), avrà diritto di segnalare, all’interno dell’ente come pure al di fuori di esso, violazioni (del diritto nazionale e del diritto europeo) ove l’ente in questione abbia avuto una media di almeno cinquanta dipendenti nell’anno precedente alla segnalazione. Se non è adempiuto questo criterio quantitativo la persona potrà segnalare solo attraverso canali interni e comunque, a quel punto (si badi bene!), non violazioni aventi ad oggetto il diritto dell’Unione europea.
Ove poi l’ente non fosse dotato di quella disciplina, il segnalante sarà protetto solo se indica violazioni del diritto dell’Unione europea, sempre che l’ente privato implicato adempia al criterio quantitativo (aver avuto nell’anno precedente una media di almeno 50 dipendenti). In caso contrario egli non avrà la protezione dovuta a chi sia qualificabile come whistleblowing.
Un regime così frastagliato non può che determinare incertezze in chi è destinato ad applicarlo e disorientamento in chi si propone con onestà di segnalare. Come si farà, per esempio, a distinguere senza margini di incertezza se la segnalazione riguarda il diritto europeo o il diritto interno, quando è proprio il processo di integrazione politica europea a determinare un tessuto giuridico intrecciato, se non intricato? Ovvero, sempre a titolo d’esempio, le condotte di cattivo uso degli stanziamenti europei nel quadro di NextGenerationEu – dunque utilizzate per dare esecuzione al Pnrr – sono da considerarsi violazioni nazionali (perché si riferiscono ad atti amministrativi e a condotte riconducibili alla volontà dei vari soggetti attuatori del Piano) o violazioni del diritto europeo (perché incidono nel regime di protezione delle risorse dell’Unione, sussidi e prestiti, che finanziano il Piano)?
È nostra convinzione che, se si vuole valorizzare l’istituto del whistleblowing e determinarne un suo radicamento nel tessuto socio-culturale nazionale, sarebbe meglio situarsi dalla prospettiva di ampliare la platea tanto dei soggetti titolati a segnalare quanto delle violazioni segnalabili nonché, infine, l’utilizzo dei canali di segnalazione a disposizione. Difficile, tra l’altro, non pensare che il Legislatore italiano si sia fatto interprete tramite questo assetto di una diffidenza (appunto culturale) verso il segnalante, e dunque di una cautela espressa a più riprese circa il pericolo che una facoltà diffusa di segnalazione rappresenti per la reputazione dell’ente. Così si manca di cogliere il valore positivo (e propositivo) dell’istituto, il cui successo (se mai ci sarà) sarà pieno quando ogni persona sceglierà di segnalare all’interno perché confidente verso l’ente al quale “appartiene” e consapevole del valore promozionale e costruttivo riconosciuto al comportamento di chi, come lui, contribuisca in tal modo a far emergere condotte (anche solo potenzialmente) non integre, indipendentemente dalla dimensione dell’ente, dalla pertinenza della condotta illecita al diritto Ue o al diritto italiano, dall’essere lo statuto di protezione del segnalante inserito oppure no in una disciplina di gestione, organizzazione e controllo.
Insomma, il Legislatore italiano ha formalmente dato attuazione alla lettera della direttiva; ma, mancando di valorizzare l’invito in essa contenuto di innalzare la protezione rispetto a uno standard minimo, ha introdotto un complesso percorso a ostacoli sul piano interpretativo pericoloso per la sua migliore applicazione.
Manifestazione di questo approccio diffidente appare anche la decisione di non disporre con il decreto legislativo misure di sostegno del whistleblower sul piano finanziario e psicologico, misure solo raccomandate dalla direttiva (al suo art. 20.2). Si tratta di una scelta normativa che concorre a indebolire l’istituto: una disciplina che interviene a regolare una situazione così divisiva sul piano culturale abbisogna di incentivi per diventare norma vivente, operativa nel tessuto sociale di relazione cui l’ordinamento giuridico si applica.
Questa scelta è ulteriormente rafforzata, negativamente, da una disposizione in chiara contraddizione con la direttiva: il decreto legislativo àncora il diritto del segnalante a un risarcimento del danno nei confronti del medesimo all’esistenza di un «danno ingiusto» subìto. Due sono i motivi per i quali siffatta disposizione va in contrasto con la direttiva. Anzitutto la disciplina europea contempla come presupposto del diritto al risarcimento il danno, senza darne aggettivazione alcuna: sarà perciò difficile applicare il decreto, di fronte a questa sua formulazione, nel rispetto della direttiva, data la stretta (e dunque ristretta) specificazione di «danno ingiusto» elaborata per via giurisprudenziale in Italia con puntuale riferimento all’art. 2043 del codice civile. Inoltre, in modo assai equivoco la norma italiana (art. 17.3 del decreto) evoca un problema di prova del danno, senza specificare a carico di chi l’onere sia posto. Potrebbe aiutare a risolvere il problema la consolidata giurisprudenza secondo la quale una discriminazione determina sempre un danno, che non compete al discriminato provare, ma soltanto evidenziare.
Una grande novità della direttiva europea consiste nell’aver dato concreta applicazione alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (a partire dalla sentenza nel caso Guja c. Moldova, del febbraio 2008): la sentenza ha accertato la responsabilità dello Stato nei confronti del segnalante (dipendente pubblico) per violazione del diritto di quest’ultimo all’esercizio del diritto alla propria libertà di espressione, in quanto licenziato a seguito della segnalazione stessa.
Ora, secondo la direttiva la persona che desidera far emergere un illecito deve poter avere a disposizione, oltre ai canali interni all’ente di “appartenenza”, anche canali esterni (che per l’ordinamento italiano sono l’Autorità Nazionale Anticorruzione/Anac, la Procura della Repubblica e la Procura della Corte dei Conti, oltre alle istituzioni, agli organi e agli organismi dell’Unione europea). Tuttavia, la direttiva europea (e conseguentemente il decreto legislativo di suo recepimento) approfondisce la questione prevedendo anche l’ipotesi che i canali interni ed esterni non siano adatti nel caso concreto, per una serie di motivi alternativi tassativamente indicati. Si tratta del caso di segnalazione che, introdotta con canale interno o esterno, non abbia prodotto alcun risultato; del caso di rischio di ritorsioni nei confronti del segnalante; del caso di pericolo imminente o palese per il pubblico interesse; del caso di rischio di degrado dell’impianto probatorio a sostegno della segnalazione.
In queste ipotesi tassative, proprio perché sia comunque consentito l’esercizio della libertà di espressione, la persona deve poter utilizzare una via eccezionale di segnalazione, rappresentata dalla stampa nelle sue varie articolazioni. La direttiva, dunque, dispone che debba essere considerato whistleblower – e dunque protetto da possibili ritorsioni, quale il licenziamento – anche chi sia costretto dalla situazione a doversi esporre con un canale pubblico. Il d. lgs. italiano riproduce fedelmente la previsione europea (nel proprio art. 15).
Ma ci si interroga con qualche preoccupazione sulla “tenuta” di un assetto che viene attivato a giudizio del segnalante sulla base di valutazioni sue proprie, pur in buona fede, indubbiamente intrise di un dato percettivo soggettivo, che dunque potrebbero essere non coincidenti con la rappresentazione della realtà sposata dall’ente implicato nella segnalazione o dall’autorità giudiziaria eventualmente interessata. E ci si interroga anche sulla caratura deontologica – se non si vuol addirittura parlare, come a parer nostro si dovrebbe, di fondamento etico – dell’ambiente giornalistico nel ben amministrare una segnalazione pubblica, evitando di immediatamente celebrare un processo mediatico che pregiudicherebbe i diritti di tutti i soggetti coinvolti: il segnalante, il segnalato, gli enti implicati nella segnalazione.
Sono indubbie le difficoltà di coerente applicazione di un quadro regolatorio che ha a che fare con un istituto innovativo, e ancor assai giovane, per il nostro Paese.
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