La morte di Wilbur Smith ha gettato nello sconforto milioni di fan dello scrittore in tutto il mondo. Avvenire, per ricordarlo, ha deciso di pubblicare un’intervista inedita realizzata nel 2017 in occasione di una presentazione dell’autore sudafricano presso la Libreria “I Granai” di Roma.
In questa intervista Wilbur Smith rispose alle critiche di chi definiva la sua versione di Africa “fin troppo legata a stereotipi ancestrali, che magari non tengono conto della situazione attuale“, come in passato non mancarono di far notare diversi critici letterari. Lo scrittore replicò: “Io conosco l’Africa dal di dentro, dalla vita quotidiana e non solo per l’ottica narrativa. Conosco l’Africa e i suoi miti, le sue fiabe, le sue ricette e penso che, molto spesso, è proprio quella narrazione iper-focalizzata sui disagi che tradisce la complessità di quei territori, che, invece, sono tante Afriche insieme. Nel ’69, come forse qualcuno ricorderà, ci fu un noto festival ad Algeri sulla letteratura africana. In quell’occasione venne fuori come questa letteratura si nutre concretamente di un retroterra molto più ampio, fatto anche di sculture, danze, musiche… L’africanismo deve provare a uscire dal binomio obbligato con il dibattito politico e sociologico. Ci sono autori che corrono paralleli rispetto ai danni del colonialismo, rispetto alle difficoltà della scolarizzazione, rispetto alla lotta armata per la liberazione. Esiste anche un tipo di letteratura africana che rifiuta la cosiddetta “negritudine”, rifiuta l’ideologia della decolonizzazione e si serve del neocolonialismo. Non sto né da una parte né dall’altra, ma ho l’esigenza di far presente come lo sguardo deve sempre andare in diverse direzioni“.



Wilbur Smith e la sua versione di Africa

Smith entrò ancora più nel dettaglio: “Come colloco i miei romanzi? Dall’ottica di un Sud Africa che riesce sempre a farcela, nonostante le difficoltà. Scrivo avendo ben a mente i nostri meravigliosi paesaggi, che sono letteratura vivente, orizzonti reali e immaginifici al tempo stesso, permeati di un mito che non ha tempo, ma ha una collocazione spaziale. Non mi piace piegarmi alla logica dell’uomo ‘ferito nel suo passato e nel suo avvenire’, proprio per citare quei giorni del 1969. La mia visione si discosta molto anche da quella di Leopold Sédar Senghor, il quale riteneva la cultura (e anche la letteratura) un fatto sociale. All’Università del Cairo, alla fine degli anni ’50, lui disse che la letteratura proveniente da contesti africani doveva essere di ‘una certa maniera’. Non ho mai condiviso questo principio, anche se mi son sempre impegnato per un’idea di eliminazione delle gerarchie fra le cultura e anche fra le diverse letterature. Non seguo una letteratura impegnata e sono convinto che i miei libri servano anche a rilassare i pensieri; tuttavia il mio impegno per l’Africa consiste soprattutto nel far assaporare la sua bellezza“.



Wilbur Smith: quando lo scrittore sudafricano consigliava di leggere Pasolini

Durante l’intervista si è discusso anche del cosiddetto “etnocentrismo culturale occidentale“, muovendo da un dialogo dell’intervistatrice con una suora dello Zambia, che ha fatto notare come esistano luoghi in cui Socrate non vuol dir nulla. Wilbur Smith al riguardo rispose: “Guardi, condivido tantissimo l’idea di decentrarsi sempre. Io, per esempio, ho letto e amato Castro Soromenho, la letteratura ambientata in Camerun, come Il vecchio negro e la medaglia. Per esempio in quest’opera emerge la spensieratezza di alcune tribù africane, stroncata, in alcuni momenti, dalla mano coloniale. Consiglio di leggere lo humour di Mongo Beti o Damas, autore formatosi perlopiù in Francia e attento osservatore delle forme di vita primitive della Guinea. Tutto questo fa parte del mio bagaglio di letture, ma anche della mia visione culturale di alcuni posti dell’Africa. Solo di alcuni, ripeto“.
Passaggio conclusivo dedicato alla poesia africana, incentrata su temi sociali e sul disastro del colonialismo, ovvero su quel binomio tra letteratura e difficoltà sociali che lo scrittore sudafricano ha spesso contestato. Il diretto interessato, in questa intervista, rispose: “Non sono un esperto di poesia, neanche di quella africana, ma i più grandi poeti di quel continente hanno parlato spesso, come segnala lei, del dolore di tante genti, di tante madri. Su questo vorrei fornire, in chiusura, due consigli bibliografici: il nero statunitense Marshall Davis e le parole di Pasolini nella prefazione ai volumi “Letteratura negra”, usciti, proprio in Italia, negli anni ’60 e curati da De Andrade. Dalla sua Medea in poi, Pasolini è stato uno dei migliori interpreti dell’essenza africana, contestando i ‘discepoli del Progresso’“.

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