Il film di culto è una cosa molto diversa dal film di grande successo popolare, anzi in un certo senso è il suo contrario. Il film di culto parte nei bassifondi della cinefilia, magari in proiezioni carbonare e poi con gli anni acquisisce fama e fortuna per entrare nell’immaginario condiviso. È successo qualcosa del genere anche a Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato, il musical fantasy ispirato al racconto di Roald Dahl che di recente è tornato all’attenzione del pubblico grazie al remake di un certo successo, Wonka, interpretato da Timothée Chalamet.



Dopo l’uscita infatti, che fu di modesto impatto, il film venne trascurato e un po’ dimenticato, fino a quando le proiezioni televisive nei giorni di festa e la vendita delle VHS fece riscoprire il film come uno strano classico: strano perché il regista Mel Stuart coglie lo spirito pungente, apparentemente cinico e sotto sotto inquietante del racconto di Dahl, mentre serve un racconto coerentemente zuccheroso ai bambini e ai loro accompagnatori.



Per chi non lo sapesse, il film racconta di Charlie, un bimbo poverissimo che trova un biglietto d’oro in una tavola di cioccolato: a lui, e agli altri quattro che hanno trovato tale biglietto, spetta una visita nella misteriosa e sorprendente fabbrica di cioccolato di Willy Wonka, il più grande cioccolataio al mondo. La sceneggiatura è firmata dallo stesso Dahl, il quale però disconobbe il film, a causa delle canzoni firmate da Leslie Bricusse e Anthony Newley e delle modifiche al copione attuate da David Seltzer, ma il cuore del film è Gene Wilder, il protagonista assoluto della pellicola.



Wilder nel 1971 non era ancora una stella del cinema, ma aveva una carriera forte come comico teatrale e una nomination all’Oscar per Per favore non toccate le vecchiette: in Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato, l’attore coglie il lato perturbante del personaggio di Dahl, un capitalista dal cuore bambino, padrone di una fabbrica che pare un luna park, ma in cui, in ogni caso, il prodotto finale ha più importanza di chi lo fruisce: la nonchalance impagabile con cui reagisce agli incidenti che capitano ai tremendi bimbi, Charlie escluso, che visitano la fabbrica è esemplare e non si sa mai cosa covi dietro lo sguardo di quell’uomo che è un mistero irrisolto.

L’altra grande protagonista del film è la scenografia e in generale il production design curato da Harper Goff, capace di inventare spazi, geometrie e colori che paiono la versione in miniatura di un kolossal come Il mago di Oz, ma che, nonostante il budget medio, regalano ancora oggi sorprese e sottili inquietudini, come nella sequenza del viaggio in battello.

Forse, è questa ambiguità appena percepibile, ma costante, che accompagna il film che lo ha reso, appunto, un culto, che fa sì che non invecchi più di tanto, anzi rendendo la sua aura naïf ancora oggi sorprendente, in cui risate, canzoni e colori non riescono a scalfire l’alone di magia ed enigma che emana da Wonka e dalla sua fabbrica.

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