Karol Wojtyła scrive il suo Giobbe durante la quaresima del 1940 e i dolori dell’uomo della terra di Us fanno da specchio a quelli della Polonia sotto l’occupazione nazista. Fin dall’inizio infatti il dramma si rivolge a tutti i sofferenti raccogliendoli sotto l’inaspettato plurale del suo stesso nome –
“voi, calpestati,
voi, flagellati,
condannati ai lavori forzati – voi –
Giobbi”
– e insieme riunendoli in un unico tempo che si prolunga fino all’oggi: un tempo di attesa “in cui si invoca il giudizio” sugli orrori del mondo come nel Giobbe biblico, ma anche il “tempo della nostalgia del testamento di Cristo”, di una promessa dunque che è già stata spesa e rivolta ad ognuno.
D’altra parte l’originalità del testo non sta appena in un’attualizzazione dei dolori e neppure nel gioco delle prefigurazioni che rimandano alla futura venuta del Figlio di Dio in risposta al lamento di Giobbe, ma proprio nel Suo farsi presente, ugualmente e misteriosamente contemporaneo all’uomo biblico come a noi stessi. E alla domanda che attraversa i secoli e arriva con tutta la sua forza fino a noi –
“Io soffro, soffro – e senza colpa,
di cosa sono colpevole?”
– Wojtyła non offre una spiegazione dottrinale, per la quale il testo drammaturgico sarebbe in fondo solo un pretesto, ma una parola vitale e autenticamente poetica, parola che accade e agisce in una sorta di analogia tra la creazione artistica e il metodo che Dio si è scelto per rendersi vicino all’uomo.
Lo stesso Giobbe nelle sue lamentazioni arriva a desiderare e a domandare incessantemente questa inaudita possibilità di una vicinanza e di una relazione diretta con Dio; e le sue grida, i suoi sospiri, sono quelli di un innamorato che è stato tradito.
“Litigherò forse con Lui?
Non posso chiamarLo in causa,
un tremito e un terrore mi scuote le ossa –
Solo pietà … solo misericordia …
se almeno svelasse il mistero
del perché Egli punisce ugualmente un cattivo
e un buono, li getta nel dolore (…)”
Mentre il coro, la moglie, gli invitati al banchetto, incapaci di rispondere a questo mistero si rifugiano dietro la Legge (pensando che Dio si sarebbe comportato allo stesso modo), Egli inaspettatamente risponde offrendo Suo figlio.
“Conducimi, conducimi a quella montagna” è la richiesta implorante di Giobbe al giovane profeta Eliu nel momento della visione della Passione di Cristo, visione che nel testo di Wojtyła sostituisce la voce di Dio in mezzo al turbine che invece conclude il testo biblico.
E quella che in esso viene indicata come “profezia di Giobbe”, come un rimando cioè alla resurrezione, –
“Io so che il mio Vendicatore è vivo
e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!
Dopo che questa mia pelle sarà distrutta,
io, senza la mia carne, vedrò Dio.”
– nel testo di Wojtyła si compie invece al presente, esperienza contemporanea al suo dolore e alla sua domanda.
“Egli viene – lo so – lo so che viene.
Egli vive (…)
Vedo che vive il mio Redentore,
sulla terra arida Egli ordinerà
alle sue piogge di scendere (…)”
Giobbe vede e partecipa di ciò che accade davanti a lui, arrivando infine a ripetere le parole di Cristo sul monte degli ulivi – “La Volontà Tua – Signore / sia fatta e non la mia”. E il suo grido, che prima reclamava solo la propria innocenza e d’essere stato “precipitato ingiustamente nella miseria”, diventa il grido del crocifisso che offre la propria obbedienza al Padre, offerta che (ben più della sua penosa sofferenza) fa di Giobbe la figura trasparente di Cristo e, del suo grido, il grido di ogni uomo.
“Io vedo col cuore – vedo col dolore”.
Quell’ingiustizia e quel dolore che a Giobbe paiono inizialmente l’esito di un tradimento inspiegabile e bruciante da parte di Dio diventano così annuncio di qualcosa d’inatteso, come inattesa è sempre per l’uomo l’esperienza di profondità nuova e di dilatazione della propria umanità nella malattia; esperienza che arriva ad assumere i contorni della profezia.
Come lo stesso Wojtyła spiega nella lettera a un amico, “in un drammatico dialogo con loro [gli invitati che arrivano al banchetto iniziale e ascoltano l’annuncio delle sue disgrazie] comincia a svilupparsi l’idea che la sofferenza non è sempre una punizione ma talvolta può essere, e spesso lo è, un presagio”.
Questo il carattere profetico che rende Giobbe così moderno o, per meglio dire, così aderente alla nostra modernità. Il profeta infatti annuncia la corrispondenza tra la propria condizione, ciò che si sta vivendo, e il proprio destino ultimo. Non più una “retribuzione”, conseguenza del peccato secondo la legge dell’Antica alleanza e da sanare al più presto, e neppure una condanna già scritta, insensata e anche insanabile, come appare all’uomo impaurito di oggi, ma (quella stessa condizione) luogo preciso, punto esatto del tempo in cui si conserva il senso di sé e abita la presenza di Dio.
Il senso del racconto di Giobbe non è allora una deificazione del dolore, ma dell’intera condizione umana, dono dell’incarnazione di Cristo e della Sua resurrezione. Lo stesso Giobbe, e come lui tutti i “Giobbi” che arrivano a offrire la loro sofferenza (profeti, santi o semplicemente amici che ci sono vicini), diventa tramite della misteriosa relazione con Dio in qualsiasi condizione ognuno si trovi a vivere. Fino al punto che ogni uomo può essere Giobbe all’altro, compiendo il “presagio” che la propria vocazione sempre contiene.
“E quando incontrerete qualcuno
che si torce le mani,
ha il cuore disperato, infranto
e il timore nel volto, –
Raccontategli –
— come:
— il Signore ha ridato a Giobbe la sua prosperità
e gli ha donato ogni bene,
il doppio di tutto quello che aveva prima”.
Nuove case, greggi, pascoli e figli. Non gli stessi, non appena una restituzione o un risarcimento, ma “cento volte tanto e in eredità la vita eterna”. È già il tempo della resurrezione.
(le traduzioni sono di Aleksandra Kurczab e Margherita Guidacci, Libreria Editrice Vaticana, 1993)
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