C’è una bella foto che gira su Internet da alcuni anni. Riprende due simpatici pensionati allegramente sorridenti. Niente di che, si direbbe, due come tanti. Invece quell’uomo e quella donna, Bobby Kelly e Nick Ercoline, qualche decennio prima, erano apparsi a loro insaputa su una delle copertine di uno dei dischi più famosi della storia, una immagine diventata iconica.



Era il triplo album tratto dal Festival di Woodstock tenutosi nell’agosto 1969 e li vedeva, abbracciati e stretti in una coperta, nell’alba gelida che poneva fine al terzo e ultimo giorno di musica, in un paesaggio quasi lunare, fatto di spazzatura e di poche altre anime vaganti dopo che la maggior parte del pubblico se n’era tornato a casa. Quell’immagine era l’immagine di una generazione: stretti nell’amore che avevano celebrato in quel festival (“Tre giorni di pace, amore & musica” si intitolava), ma rimasti soli. Perché il sogno è una bella cosa, ma i sogni restano tali, la realtà va da un’altra parte. Fu  un sogno durato tre giorni, perché poi ognuno fece ritorno a casa sua e finì per tagliarsi i capelli, indossare giacca e cravatta e tornare nel sistema. Per altri andò peggio, incapaci di uscire da quel sogno finirono in un incubo, quello della droga che dall’innocua marijuana era diventata la devastante eroina. Il mercato era cambiato e così anche l’uso: da esperienza di conoscenza, come la si intendeva, di “espansione della mente”, era diventata una botta potente in grado di distrarti per qualche momento e poi ucciderti: “Ho preso una grande decisione cercherò di annullare la mia vita perché quando il sangue inizia a fluire quando si solleva il collo del contagocce quando mi sto avvicinando alla morte non puoi aiutarmi ora, ragazzi e tutte voi ragazze dolci con tutte le vostre dolci parole potete andare tutti a fare una passeggiata” cantava Lou Reed in Heroin.



Eppure per quei tre giorni sembrò davvero che il mondo dovesse cambiare. Pur non essendo presente al festival, Joni Mitchell scrisse una canzone che ne descriveva perfettamente l’atmosfera, intitolata semplicemente Woodstock: “Per quando arrivammo a Woodstock eravamo mezzo milione e ovunque erano canzoni e celebrazioni e sognai di vedere i bombardieri della morte sparare razzi nel cielo che diventavano farfalle sopra la nostra nazione / Siamo polvere di stelle, siamo oro catturati nei loschi affari del diavolo e dobbiamo ritornare al giardino”.

Già, quella era davvero una nazione. Mai era successo nella storia degli Stati Uniti che tanti giovani della stessa età si muovessero da ogni angolo d’America per radunarsi in un solo punto. Non era solo per la musica: era il momento in cui tutta quella contro cultura cresciuta negli anni precedenti nelle manifestazioni per i diritti civili, contro la guerra nel Vietnam, contro il monopolio capitalista, per la riscoperta dell’ambiente e della natura, contro la famiglia patriarcale che soffocava i figli in norme e regole disumane, si ritrovava tutta insieme. Canzoni e celebrazioni. Quella che era una utopia per un momento sembrò diventare realtà. Max Yasgur, un contadino già anziano del luogo, che aveva offerto il suo terreno, parlò con stupore di come mezzo milione di persone, in una situazione che avrebbe permesso risse e saccheggi, avessero creato realmente una comunità motivata dagli ideali di pace e amore. “Se ci ispirassimo a loro” – disse – “potremmo superare quelle avversità che sono i problemi attuali dell’America, nella speranza di un futuro più luminoso e pacifico…”.



Per quel breve tempo che durò, dimostrarono al mondo che il cuore dell’uomo è fatto per qualcosa di più grande della noiosa routine dalle 9 alle 5 in ufficio, le vacanze a ferragosto o per Natale, l’ipocrisia della carriera a tutti i costi sbarazzandosi in modo brutale di colleghi e amici, cioè il sistema americano.

Non tutti naturalmente di coloro che vi presero parte ne hanno un ricordo idilliaco. Eddie Kramer, già allora famoso produttore e ingegnere del suono, ebbe l’incarico di curare tutta la parte musicale dell’evento e ricorda l’atmosfera caotica ma anche innocente di quei giorni: “Tre giorni di droga e fango: Woodstock è stato un incubo!”. Basta una manciata di secondi a Eddie Kramer per smontare la retorica idealista che aleggia da sempre intorno al raduno dei raduni. “La mia missione era incidere su nastro tutto quello che avveniva sul palco. Gran bel lavoro in teoria, ma quando sei l’unico essere umano lucido in mezzo a 500 mila strafatti, le cose si complicano. Artisti, manager, security, staff: tutti fuori di testa. Ricordo un mixer in fiamme e un gruppo di tecnici in preda all’lsd che gli danzava intorno. ‘Nessuno lo spegne?’ chiedo io. ‘Noi non rubiamo il lavoro alle nuvole’ fu la risposta”.

Anche tra i musicisti ci furono infiniti problemi, come gli Who che si stavano rifiutando di cominciare a suonare perché reputavano di essere pagati troppo poco rispetto ad altri musicisti (alla faccia del fraterno amore).

Musicalmente, a parte qualche star già affermata come Joan Baez, Janis Joplin o Jimi Hendrix, Woodstock ebbe il merito di lanciare nella stratosfera un sacco di gruppi semisconosciuti, e questo avvenne grazie a performance strabilianti. E’ il caso dei giovanissimi Santana con il loro indimenticabile sabba sudamericano di Soul Sacrifice; di Joe Cocker, il meno pagato in assoluto, che arrivò a Woodstock come uno sconosciuto ex minatore inglese e tornò a casa come una superstar, l’autentico eroe del festival con quella indimenticabile e selvaggia, terrificante rilettura di With a Little Help from my Friends dei Beatles; di Country Joe MacDonald che armato di sola chitarra acustica risvegliò l’intorpidita e sfatta massa di spettatori con Fixing’ to Die Rag ( “Come pensate di fermare una guerra se siete così rimbambiti” li apostrofò) introdotta dal cosiddetto “Fish Cheer”. A Woodstock diventò il “Fuck Cheer” con il cantante che invitava la folla a rispondere lettera per lettera, “come si pronuncia?” f…u…c..k… e poi l’invettiva contro la guerra in Vietnam, “One, two, three, what are we fighting for?”. Le straordinarie riprese filmate mostrano uno a uno le centinaia di migliaia di spettatori alzarsi in piedi e cantare all’unisono. Ci fu anche un incidente, quando il leader dell’ala più politicamente impegnata del movimento giovanile, Abbie Hoffman, salì sul palco durante il set degli Who per tenere un comizio, per esserne sbattuto giù da una chitarrata di Pete Townshend.

E naturalmente ci fu Jimi Hendrix, che doveva cominciare a suonare alla mezzanotte del secondo giorno ma per i ritardi accumulatisi per la scarsa organizzazione, cominciò a suonare alle nove del mattino del terzo, quando la maggior parte degli spettatori era andata via. In un’alba livida, da giorno dopo l’apocalisse nucleare, le note dell’inno americano suonate dalla sua chitarra con effetti che assomigliavano alle bombe che cadevano nel Vietnam, rimase l’epitaffio di un momento storico e irripetibile.

Così come il pubblico se ne tornò a casa ai propri affari, quella generazione di musicisti fu accalappiata dalle case discografiche che avevano fiutato l’affare: li misero sono contratto, li stritolarono con routine succhiasangue di un disco dopo l’altro, tournée massacranti e ben presto quella voglia di fare musica innovativa, sperimentale, coraggiosa si prosciugò. E anche tra di loro, vedi lo stesso Hendrix che nel giro di un anno sarebbe morto soffocato dal proprio vomito, ci furono tanti che scomparvero nel buco nero della droga pesante.

Si è voluto replicare questo festival già in due occasioni. La prima per il 25esimo anniversario, nell’agosto 1994. Molti dei protagonisti della prima volta erano presenti, in fondo avevano poco più di 50 anni, altri erano i rappresentanti dell’ultima generazione rock. Tutto sommato fu un bel festival, anche per la presenza questa volta di Bob Dylan. Woodstock nel 1969 come location fu scelta proprio perché il massimo cantautore americano degli anni 60 si era trasferito a vivere lì, era il simbolo di tutto lo sconvolgimento del decennio e gli organizzatori speravano di convincerlo a suonare. Non ci fu verso: Dylan, come racconta nella sua autobiografia, odiava gli hippie, “storditi che di notte entravano a casa mia per vedermi” mentre lui era impegnato a crescere i figli che stava mettendo al mondo uno dopo l’altro. Nel 1994 invece fu accolto con “Abbiamo aspettato 25 anni per questo momento” e Bob Dylan eseguì una delle migliori performance della sua vita.

Quattro anni dopo, nel 1999, si replicò ancora in occasione del trentesimo anniversario. Fu un disastro di proporzioni epiche. I tempi erano decisamente cambiati, era esploso il movimento dei black blok, il mondo si era incattivito, tutti contro tutti. Fu scelta una orribile location, la pista di una aeroporto lì vicino e invece dei bagni nudi nel fiume centinaia di migliaia di giovani arrostivano sull’asfalto. I prezzi del cibo e del bere erano spropositati, tutto in mano a multinazionali dello sfruttamento. Il festival terminò in una sommossa fatta più per noia che per motivi politici, in cui venne dato alle fiamme mezzo festival. Altro che pace e amore.

Il 50esmo anniversario che si celebra quest’anno sembrava una occasione irripetibile. Una nuova edizione di Woodstock, da tenersi tra il 16 e il 18 agosto 2019, a cinquant’anni esatti dal concerto del secolo scorso. L’anniversario del leggendario show, improvvisato nel giardino della fattoria di Max Yasgur a Bethel, nello stato di New York, doveva essere celebrato degnamente, e perciò Live Nation e il Bethel Woods Center for the Arts hanno annunciato già da mesi una riedizione, Woodstock, tre giorni «di pace e di musica» (non di amore però), a Bethel, sulle ceneri della fattoria che, dal 15 al 18 agosto 1969, ne ospitò l’originale. I sopravvissuti del primo festival si contano sulle dita di una mano: Janis Joplin, Jimi Hendrix, Tim Hardin, Joe Cocker, Ravi Shankar, gli Sweetwater, Richie Havens, i Grateful Dead, i Creedence Clearwater Revival, i Jefferson Airplane, gli Sly & the Family Stone, The Band, Paul Butterfield, Johnny Winter sono tutti morti o non suonano più. Per gli organizzatori il massimo sarà avere sul palco Santana, John Fogerty Robert Plant ex cantante dei Led Zeppelin (che non suonarono nell’edizione originale) e David Crosby. E poi gruppi dell’ultima generazione, tipo Miley Cyrus e il rapper Jay-Z. Ma probabilmente non ci sarà alcun festival. Sono infatti orti una serie di problemi economici legati ai vari sponsor e gli organizzatori. Ai primi di maggio l’annuncio ufficiale: il festival è stato cancellato. Il finanziatore principale. la giapponese PR e il gigante della pubblicità Dentsu Aegis Network hanno detto di non essere in grado di garantire la sicurezza di artisti e pubblico. Secondo quanto scritto dai media, sarebbero stati già spesi 30 milioni di dollari per i musicisti. I biglietti che dovevano andare in vendita lo scorso 22 aprile non sono mai stati messi in vendita. Michael Lang, organizzatore del festival originale, continua a dire che in un modo o nell’altro l’evento si terrà. E così, nel miglior stile americano, si è finiti in tribunale. Secondo fonti ben informate, alla base del ritiro dei finanziatori il fatto che si sia ridotto l’ingresso da 100mila spettatori a 75mila, cosa che non garantirebbe copertura spese e soprattuto guadagni. Lang, dal canto suo, ha fatto sapere che i biglietti costeranno 450 dollari, una cifra astronomica.

A tutt’oggi non ci sono novità, non si sa se il festival si terrà o meno. In ogni caso, anche questa volta, allo spirito originario amore e libertà, si sono sostituiti interessi puramente economici. Per tutti quelli che hanno vissuto e sono cresciuti nel clima dell’evento originario resta una sola consolazione, la pubblicazione di un super cofanetto contenente ben 38 cd, 432 pezzi di cui 267 mai pubblicati, contenente in pratica tutto quanto suonato nel 1969. Una ricostruzione quasi completa delle performance di tutti gli artisti presenti a Bethel, dal 15 al 18 agosto 1969. Trentasei ore di esibizioni in ordine cronologico, (ad eccezione di due canzoni di Jimi Hendrix e di una degli Sha Na Na), con i rumori di sottofondo originali: gli annunci, la folla e il dietro le quinte. “Woodstock, Back to the Garden, the definitive 50th anniversary archive”, contenente anche lo storico film uscito l’anno dopo. Ma anche qui i soldi da sborsare non sono pochi: circa 800 dollari.

Non resta che riguardare la foto di quei due anziani hippie, rimasti soli nella fredda alba di quel girono di agosto 1969. Forse è giusto così. I sogni non si devono mai ripetere due volte.