Il caldo afoso di questi giorni aumenta la fatica nella gestione delle frustrazioni. Forse è anche dovuto a questo motivo l’imbattermi di recente in diverse lamentele e insofferenze inerenti il lavoro. Uno dei temi più gettonati è il rapporto tra la vita personale e quella lavorativa, che viene sofisticatamente definito come il work-life balance. Quanto devo lavorare? Quanto (e come) devo dedicarmi alla famiglia?
Si tratta di domande che interrogano diversamente gli uomini e le donne. I primi hanno difficoltà a limitare i pensieri per il lavoro e aprirsi alla vita familiare. Le seconde, al contrario, hanno l’esigenza di ritrovare una dimensione lavorativa che l’impegno familiare rischia d’impedire. Gli “esperti” vanno a nozze di fronte a queste questioni, rifugiandosi però in un luogo comune che non sento vero, cioè che non esistono regole generali ma solo piccoli accorgimenti personali.
Senza nulla togliere al fatto che ogni circostanza è particolare, così come lo sono le persone, penso che ci siano alcuni principi universali che possano essere di aiuto a ogni singolarità, e che sia il compito di ogni persona non tanto applicare un piccolo cerotto alla ferita, ma somministrarsi una cura dopo avere compreso il senso della malattia. È il compito che la psicologia tradizionale attribuiva alla virtù della prudenza, la quale sceglie i mezzi in ordine ai fini: è dunque necessario sia conoscere i primi che, soprattutto, i secondi. Senza pretesa di esaustività vorrei dunque richiamare tre principi universali che hanno aiutato me in questo campo, sia nell’ambito personale che professionale.
Primo: anche stare in famiglia è un lavoro. Lo sanno bene tutti quei papà che la domenica si mettono a giocare ora dopo ora con i propri figli. E spesso è faticoso. Però qui si intende il lavoro non solo nel senso della fatica, ma soprattutto del fine: è un lavoro tutto ciò che edifica il mondo. E curarsi della propria famiglia comporta esattamente questo. I papà che si rintanano dietro la scusa dell’ufficio, delle mail, del cellulare, non stanno lavorando di più, al contrario, stanno venendo meno all’officio che essi stessi si sono scelti (nessuno, infatti, li ha obbligati a mettere al mondo dei figli!). Una mamma che fa il bucato, prepara la cena, fa studiare i ragazzi… sta anche lei compiendo un lavoro – come disse Bernhard Scholz anni fa, quando era ancora a capo della Cdo – anche se non è direttamente stipendiata. È meglio che i mariti lo imparino presto. Anche perché, diciamocela tutta, spesso un papà che si ritira dal suo ruolo in famiglia lo fa per pigrizia.
È più semplice mettere la testa nell’impegno che occupa ordinariamente tutta la giornata piuttosto che impegnarsi in attività che si compiono solo di rado. Talvolta il cambio di ritmo richiede una grande fatica. Chi si ritira da questa fatica sta facendo una scelta vigliacca, non vi pare? Bisogna dunque aiutarsi a fronteggiare l’impegno della famiglia, che dà tante soddisfazioni ma è pur sempre onerosa. È vedendo l’impegno dei genitori – tra l’altro – che i figli interiorizzeranno un modello di lavoro quando si tratterà di studiare, lavorare o compiere scelte giuste, ma impegnative.
Secondo principio: per chi si lavora? Chi lavora troppo, cioè è vittima del lavorismo, deve chiederselo tanto quanto chi ambisce a lavorare di più. Il primo avrà il pilota automatico impostato sugli impegni, le scadenze, le attività da non dimenticare. Ma, fondamentalmente, perché? Per quale ragione in automatico uno è inclinato a dare uno spazio così ampio all’azienda dentro la propria testa? Bisogna essere onesti: spesso, lo si fa per motivi poco nobili. Per i soldi o il successo, per i propri genitori o l’autostima, per scappare da una moglie difficile o da un capo esigente, ecc. In un video di Enzo Piccinini che poco prima del Covid era stato ampiamente ri-diffuso, scopriamo che il medico bolognese in odore di santità tornava spesso tardi la sera a casa, per impegni lavorativi ma non solo, anche per gli incarichi che ricopriva nella Chiesa. Non trascurava, forse, la sua famiglia? Non avrebbe dovuto mollare tutto e stare con i figli, invece che il contrario?
Quando ho rivolto questa domanda a un suo amico ancora in vita, che lo conosceva bene, mi ha risposto così: “Secondo te Enzo per chi stava lavorando?”. La risposta mi era chiara: lavorava per Dio e (assieme) per la sua famiglia. Era evidente che lo facesse per loro e non per sé da tanti piccoli dettagli, ad esempio dal fatto che quando rincasava passava sempre a salutare e giocare coi bambini, anche se era tardi, anche a costo di svegliarli! Non fanno così i genitori lavativi. Inoltre, l’entusiasmo che voleva condividere con la famiglia segnalava il motivo per cui valeva la pena impegnarsi durante il giorno: per loro, perché potessero godere del bene che lui faceva e incontrava. Cristo non era qualcosa di alternativo alla famiglia, quasi come se fosse un impedimento nel seguirLo, ma al contrario coincideva – almeno idealmente – con essa.
Piccinini si occupava fuori quando era bene farlo, ma altrettanto spesso si impegnava in casa quando era bene farlo. Ecco la grande virtù della prudenza in azione. Questo insegna che conviene chiedersi: per chi sto lavorando? Ma in modo serio, non stereotipato. Se è per qualcuna delle ragioni egoistiche e secondarie di cui abbiamo accennato prima, forse è il caso di fermarsi, e di lasciare spazio a motivi più solidi e nobili per cui ci sentiremo virtuosi.
E per capire quali siano questi motivi, come si fa? Eccoci al terzo e ultimo principio, che mi è stato insegnato diversi anni fa, da un amico appena diventato papà per la terza volta: dove Dio mi sta chiamando adesso? Spesso mi capita di parlare con degli impiegati a cui sembra che il proprio lavoro costituisca la spina dorsale dell’azienda. Se non vanno in ufficio il giorno dopo il mondo crolla (quando ci ragioniamo assieme convengono che sia una follia pensare in questo modo, ma di fatto è come spesso si sentono). Ci saranno anche situazioni così, per carità. Ma penso che sia un modo di ragionare dovuto al clima culturale che imperversa in moltissimi posti di lavoro, piuttosto che un dato di realismo. Aiuta allora domandarsi: dove Dio vuole che io sia adesso? A fare tre ore di straordinario, perché sennò il capo si arrabbia, o ad aiutare nei compiti i miei bambini, a sostenere la moglie negli impegni casalinghi, a togliere un po’ di peso dalla schiena dei nonni?
Certo, si tratta di domande scomode. Implicano un impegno, uno sforzo, una fatica. Bisogna togliere un pilota automatico e ruotare la cloche manualmente. Ma non vogliamo forse essere quei campioni per cui le mogli stravedono? Quei supereroi che un giorno i figli imiteranno? Quegli amici indefessi sempre pronti ad aiutare? Allora dai, smettiamola di lamentarci, prendiamo le giuste decisioni e tagliamo i rami secchi che vanno potati. Agiamo, insomma, per come siamo stati progettati: come uomini forti e coraggiosi.
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