Dopo una “grande attesa” sull’imprevedibilità del risultato, Xi Jinping è stato rieletto per la terza volta presidente della Repubblica Popolare Cinese dal Congresso nazionale del Popolo, proseguendo nel suo secondo decennio di mandato.
È stata una vittoria… sul filo di lana: 2.952 voti favorevoli su 2.952 votanti (quindi Xi ha votato per sé medesimo, non si sa mai) gli permetteranno di stabilire il record di durata alla guida della Cina. Per buon peso era stato rieletto anche alla guida suprema del Pcc (Partito comunista cinese) nell’ottobre scorso, anche qui per la terza volta dopo che i rispettivi congressi avevano eliminato la norma costituzionale del limite a due mandati consecutivi.
Il Congresso nazionale del popolo ha anche nominato Xi – che ha immediatamente prestato giuramento sulla Costituzione nella grande sala del congresso – presidente della Commissione militare centrale, il massimo organismo del Paese che guida le forze armate e sovrintende alle strutture militari. Xi forever, insomma, o almeno per altri cinque anni.
Ironia a parte, è però da notare come questi risultati-farsa non abbiano suscitato commenti negli organismi internazionali sul “democratico” sistema elettorale cinese.
Un sistema che sembra bloccato e che infatti si è cristallizzato anche sulle scelte di contorno, ovvero la presidenza del Congresso assegnata a Zhao Leji che – sempre all’unanimità – è stato così confermato presidente del ramo legislativo e considerata la terza carica del Paese. Vice-presidente è stato invece eletto Han Zheng che lo scorso ottobre aveva lasciato l’incarico di presidente del Comitato permanente del partito comunista. La nomina era praticamente già nota già da domenica perché – ad inizio congresso – Han era entrato nella sala del congresso in fila subito dopo Xi, prima del vice-presidente uscente Wang Qishan.
Stupenda la scenografia di questi mega-congressi cinesi che si aprono al suono dell’Internazionale con l’ingresso in sala in ordine gerarchico di chi dovrà poi essere eletto alla fine dai “delegati del popolo”, così come la coreografia, i vestiti dei delegati (tutti uguali, perfino le cravatte), lo stanco pugno chiuso con cui Xi ha salutato alla fine: rituali che sempre sorprendono, soprattutto perché appaiono fuori dal tempo e di pura scenografia.
Al di là di questo, però, altre sono le domande che si fanno gli esperti della politica cinese, perché il congresso non ha svelato e neppure solo indicato chi potrebbe succedere a XI, che – a dispetto delle solite chiome senza un solo capello bianco – ormai ha 70 anni. Tutto appare vetrificato e in buona sostanza non sembra che ci saranno novità per i prossimi cinque anni, almeno a livello di nomenclatura. Per la Cina – che obiettivamente Xi ha portato ad un progressivo e significativo livello di sviluppo –, però, non tutto è semplice e le cose si sono molto complicate a causa del Covid.
Innanzitutto il benessere ha coinvolto solo una parte della popolazione, lasciando molto indietro le popolazioni rurali; l’incremento del Pil – che era cresciuto stabilmente per molti anni – è progressivamente rallentato (nel 2022 è stato di “solo” il 3,5%) e la politica “zero Covid” portata avanti da Xi l’anno scorso ha portato a forti ribassi di borsa.
L’eliminazione dai vertici del Comitato permanente del Politburo del Pcc, nell’ottobre scorso, di chiunque non fosse in linea con il presidente Xi (come ad esempio i “riformatori” Hu Chunhua e Wang Yang) aveva portato non solo al panico in borsa, ma anche a chiedersi se in qualche modo Xi non fosse diventato prigioniero di sé stesso. Significative, per esempio, le proteste scoppiate in autunno in diverse parti del Paese, che hanno poi di fatto portato ad un rallentamento delle norme anti-Covid, giudicate troppo restrittive.
Sono segnali in superficie, ma è difficile capire cosa si delinei nella “pancia” politica del Dragone. In superficie la Cina continua a crescere, anche se vi è stata una contrazione dei beni di consumo (per esempio nel 2022 è crollata la vendita degli smartphone), ma è in corso anche una grave crisi immobiliare e cresce la disoccupazione giovanile, perché le aziende – che si espandono di meno – tendono a mantenere i propri dipendenti senza aprirsi alla fascia più giovane. Siamo lontanissimi dalle percentuali europee, ma anche in Cina la piena occupazione non è più un dogma.
Uno dei timori è che le tensioni interne portino Xi a spingere più l’attenzione dell’opinione pubblica sull’esterno, ad iniziare dai rapporti con Taiwan che da mesi sono critici, dopo anni di relativa tranquillità.
Intanto – per la prima volta dopo decenni – si registra anche un calo della popolazione, nel 2022 stimato in 850mila persone. I cinesi sono oggi circa un miliardo e 411 milioni contro il miliardo e 413 milioni di indiani che crescono a ritmo ancora sostenuto e che quindi sono oggi il Paese più popoloso del mondo.
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