Xi Jinping, presidente della Cina, si è reso protagonista di una pagina a suo modo storica per il Paese del Dragone, recandosi in visita in Tibet a 31 anni di distanza dall’ultimo viaggio istituzionale di un leader della superpotenza orientale (Jiang Zemin, 1990). La notizia è trapelata soltanto a 48 ore di distanza dall’approdo a Lhasa del numero uno cinese, il quale ha ribadito, in occasione dell’incontro con le autorità locali, che il Partito comunista costituisce la chiave dello sviluppo e della stabilità di quella regione abbarbicata sulle vette.



Come riporta il quotidiano “La Repubblica”, questo viaggio non preventivato e avvenuto in fretta e furia sta a testimoniare presumibilmente il clima di tensione e di sofferenza che si respira a quelle latitudini nei confronti del Governo di Pechino, visto che le metodologie adottate per il controllo delle periferie e delle minoranze sono finite spesso nel mirino delle ong, non ultimo il caso degli uiguri e dello Xinjiang. Durante la trasferta, Xi ha visitato il bacino del Brahmaputra, dove la Cina vuole erigere una maxi diga per produrre energia, progetto inviso all’India.



XI JINPING: “LA RELIGIONE BUDDISTA SI PIEGHI AL SOCIALISMO”

Poi, Xi Jinping si è recato a Lhasa, ove ha potuto visitare il monastero di Drepung, evidenziando la necessità da parte del buddismo di “adattarsi alla società socialista” e salutando le due ali di folla festante in abiti tradizionali e munita di bandierine cinesi. Secondo “La Repubblica”, il presidente della Cina, accompagnato dal leader locale del Partito, Wu Yingjie, ha posto in risalto l’importanza della protezione dell’ambiente, lo sviluppo, la stabilità e il rafforzamento dei confini, visti gli scontri dello scorso anno ad alta quota fra truppe cinesi e indiane.



Tuttavia, non tutto il Tibet vede di buon occhio l’egemonia della Cina, come dichiarato dal politico Penpa Tsering al quotidiano “Nikkei”: “Sempre più cinesi – ha asserito – si trasferiscono in Tibet. Stanno schiacciando la nostra comunità, distruggendone l’identità. L’installazione di videocamere nei monasteri tibetani è una sorta di genocidio culturale che riguarda l’istruzione, la lingua, la libertà di religione, i diritti umani”.