Sono due settimane che lo yen prosegue la sua corsa verso gli abissi degli scambi internazionali, una missione che ha cominciato circa 11 anni fa. La prima volta che la valuta giapponese è affondata era ottobre 2011, mentre a gennaio 2012 si è udito il primo rumoroso crollo, consolidatosi nell’ottobre 2012. In questi dieci anni lo Yen sembra essersi ripreso solo un paio di volte: il minimo storico è stato toccato nel giugno 2015 a quota 0,7945. Più in basso di lì si pensava di non poter arrivare, e invece no: abbiamo sfondato i minimi storici. Le leggere lateralizzazioni e i timidi rialzi, che si sono susseguiti dal 2017 al 2020, tuttavia, se da una parte hanno lasciato sperare in un recupero, dall’altra hanno aumentato l’incertezza, fino al 19 aprile scorso, quando la moneta giapponese è definitivamente capitolata di oltre 130 punti: da 0.7876 è affondata a 0.7752.
Yen: un affondo del 40 per cento
In quasi 11 anni, la valuta giapponese ha perso circa il 40% sul dollaro. Jim Bianco commenta il crollo con dei Twitter riportati da icebergfinanza e intravede una causa di questo crollo nell’attività finanziaria della Bank of Japan, che “opera con il controllo della curva dei rendimenti da settembre 2016. L’attuale iterazione punta al rendimento della Bank of Japan a 10 anni allo 0%, con una banda intervallo di 25 punti base“. Molti economisti promuovono il controllo della curva dei rendimenti come strumento politico legittimo. Il problema è che funziona finché non esplode, quindi la Bank of Japan può impedire l’aumento dei titoli a 10 anni, oppure può impedire il crollo dello Yen, ma non può fare entrambe le cose.
Yen: perché il suo crollo ci riguarda da vicino?
Perché il crollo dello Yen ci riguarda da vicino? Perché la BCE sembra seguire la stessa ricetta della Bank of Japan, tenendo i tassi di interesse fermi, con un’inflazione che galoppa. Una situazione che potrebbe portare presto al crollo dell’euro. Con la stagflazione in atto e la recessione che sta per arrivare, in concomitanza con i tassi di interesse sempre fermi è quello che potrebbe accadere.
Ma la chiusura delle città cinesi per questo lockdown che non termina mai potrebbe portare a un rialzo dei prezzi dei barili di greggio, visto anche il calo delle forniture libiche. La domanda di petrolio viene infatti sostenuta dalla Cina, che però in questi giorni è impegnata a continue chiusure e lockdown, perché è in un’ennesima ondata pandemica. Probabilmente per questo, come fa notare anche il direttore di SPI asset management Stefan Innes, la produzione petrolifera è diventata reattiva agli shock della domanda.
Yen: l’embargo potrebbe aprire tristi scenari
Quindi cosa potrebbe fare un euro debole rispetto al caro energia, al caro del greggio e all’embargo del petrolio? Naturalmente potrebbe soltanto affondare, visto il già basso potere d’acquisto che l’euro ha in questo momento.
Il problema dell’embargo si fa sempre più concreto se ormai tutti sono arrivati alla conclusione che le sanzioni servono a poco senza embargo su gas e petrolio, tanto che la Yellen (ministro del tesoro Usa ed ex direttore della Fed), proprio due giorni fa, ha tentato di far paura a Putin, dicendo che aumenterà la stretta delle sanzioni. Il problema è che mentre la Yellen minaccia Putin, ad avere paura sono gli americani, che attualmente combattono contro l’inflazione galoppante e la contrazione fisiologica di consumi.
Yen: le sanzioni non puniranno Mosca e ci faranno collassare
Secondo il senior analyst dell’agenzia tedesca Scope Ratings, Levon Kameryan, “l’aumento delle entrate derivanti dalle esportazioni di petrolio e gas dalla Russia, in gran parte risparmiate delle sanzioni internazionali” porterà la Banca Centrale (russa, ndr) a ricostruire gran parte delle riserve internazionali che le sanzioni hanno congelato, accelerando così la “dedollarizzazione” delle riserve e del commercio estero ed “aumentando l’esposizione allo yuan cinese“. Infatti attualmente “Mosca potrebbe avere un avanzo delle partite molto al di sopra dei 200 miliardi di dollari a causa del crollo delle importazioni dell’aumento del valore delle esportazioni di materie prime, rispetto ai 120 miliardi di dollari del 2021“, conclude l’economista.
E, mentre l’Occidente e gli USA comminavano sanzioni sotto il suggerimento di Christine Lagarde, Ursula von der Leyen e Mario Draghi, la potenza più grande del mondo aveva scambi commerciali con la Russia pagando in euro, un elemento che tutti tendono a ignorare. Cosa accadrebbe se all’improvviso Russia e Cina decidessero di sostituire la valuta europea con quella cinese? Probabilmente che l’euro affonderebbe negli abissi, come ha fatto lo Yen giapponese? È un’ipotesi. L’altra, invece, vede Mosca al timone.
Yen, il commercio tra Mosca e Pechino
Dopo che Russia e Cina, nel febbraio scorso, hanno firmato un accordo per la fornitura di altri 10 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno per i prossimi 25 anni, col progetto di allargare il Power of Siberia 2 che sarà pronto per il 2030, oltre all’allargamento del Power of Siberia pronto per il 2025-2026, Pechino riuscirà ad ottenere dalla Russia altri 50 miliardi di metri cubi di gas ogni anno. Ovviamente sono soltanto un terzo rispetto a quanto ne acquistiamo noi dalla sola Russia, ma l’elemento essenziale e prevalente è che Mosca e Pechino contratteranno in rubli, almeno questo è l’accordo.
E dunque la “magia” di cui parlava il Financial Times, quella di cui sarebbe stato capace Mario Draghi sulla Yellen, a cosa è valsa realmente? Certamente possiamo dire, senza ombra di dubbio, che è valsa ad affondare l’economia dell’Occidente.
Yen: tutto in nome della guerra
Ben consapevoli che il protrarsi della guerra porterà ad una recessione, la crisi del settore primario, il caro dei fertilizzanti con il conseguente boom dei generi alimentari, misto alla perdita di potere d’acquisto delle valute occidentali, probabilmente porteranno ad una carestia senza precedenti. La svalutazione del potere d’acquisto delle monete occidentali sarà conseguente e renderà necessario il recupero del debito già contratto nei due anni di pandemia attraverso i patrimoni nazionali.
Altro che “polizia finanziaria” dell’armata di economisti e finanzieri capeggiata da Draghi! Tutti inseguono la corsa agli armamenti, ben consapevoli che questa scelta allontanerà l’Occidente dalla pace. Una pace che nessuno vuole, perché forse a qualcuno la stabilità non rende… Tutto, purché sia fatto in nome della guerra.