L’estate musicale del 2023 passerà come la stagione del gran ritorno dei dinosauri del pop-rock, la riscossa post-pandemica nella quale l’ispirazione repressa per mesi dal forzato stop comunicativo, dopo un tragitto carsico riemerge e s’impone ai fans vecchi e nuovi.
Le nuove produzioni e l’attività concertistica dei vari Paul Simon, Bob Dylan (aspettiamo da parte del maestro Vites, sulle pagine digitali del Sussidiario il racconto dell’ultimo cd con annesso docu-film di “Shadow kingdom”), la definitiva tournée mondiale di Bruce Springsteen con la E-Street band, il live itinerante del redivivo Peter Gabriel (con un nuovo album in uscita, dopo 22 anni!), stanno vivacizzando il mondo dei recensori militanti. Ora, arriva il nuovo lavoro di Cat Stevens (Yusuf/Cat Stevens, per la precisione): “The king of the land”.
L’artista inglese, classe 1947, di origini greche (vero nome Steven Demetre Georgiou), è un “must” del folk-rock fin dal 1970 e la sua carriera di menestrello sensibile, dominatore del pop acustico ha attraversato epoche diversissime e complicate: grande protagonista delle hit parade mondiali per tutti i “seventeen” (decine di milioni di dischi venduti) raccolse allori e recensioni entusiastiche per le sue composizioni delicate e intime (qualcuno avanzava anche “depressive”) con punte di spiritualità inusuali per la categoria cantautoriale del tempo, titoli come “Moonshadow” e “Morning has broken” sono esempi lampanti, fino all’inno generazionale “Father and son”, riconosciuto da intere schiere di appassionati ascoltatori.
Ma proprio nell’ultimo scorcio dei ’70, già in crisi esistenziale a causa dell’invadenza del business discografico, coinvolto in un incidente drammatico con rischio di annegamento, Cat Stevens ritrova una sua precisa dimensione religiosa (e culturale) e si converte, ante-litteram, all’Islam: rompe drasticamente tutti i ponti con il ritmo di vita occidentale compreso la musica profana, rinnegandola (proprio per i dettami della religione mussulmana radicale) e si ritira dai palcoscenici. Cambia addirittura l’anagrafe, da ora si farà chiamare Yusuf Islam. Rimane a vivere in Inghilterra dove fonderà la prima scuola mussulmana londinese e in questa veste ricoprirà il ruolo di consulente per alcuni governi della Corona.
Su di lui cala il silenzio, fin quando, nel 2003 viene invitato da Peter Gabriel sul palco di un’imponente manifestazione a Città del Capo nel Sudafrica post-apartheid a sostegno di una campagna fondi anti-Aids sotto l’egida di Nelson Mandela. E così, dopo decenni, Yusuf Islam, in duetto con l’ex Genesis, ricanterà con voce tremolante il primo grande successo di Cat Stevens: “Wild world”. La promessa di negare la sua voce in luogo pubblico svanisce e negli anni successivi, prima timidamente e poi con più convinzione, ricomincia a produrre concerti e riprende l’attività discografica che aveva pervicacemente abbandonato, lasciandosi addirittura consigliare dal marketing (per non spaventare il pubblico occidentale, specialmente dopo l’attacco alle Torri Gemelle) a riprendere il vecchio nome conservando l’iniziale Yusuf eliminando l’inquietante Islam. E così, riaccolto nella comunità rock, in questi primi vent’anni del nuovo secolo, pubblica una manciata di album tra qualche inedito e un cospicuo numero di ripescaggi della sua vita discografica precedente debitamente riarrangiati.
Grazie all’impronta della sua voce che non risente affatto dell’età recupera i vecchi fans e decide di dare alle stampe proprio in questi giorni del 2023 un album completamente composto da inediti che, pur rimanendo a debita distanza dalle creazioni dei suoi classici lo ripresenta come empatico menestrello dedito a messaggi positivi, ora ecologici ora accalorate preghiere a una Divina Entità dispensatrice di fratellanza e di pace universale, confermati anche dalle sue interviste in fase di presentazione dell’album: “Questo album per me è molto bello perché ho inserito tutte le sfumature che avevo immaginato (…) Credo sia perfettamente bilanciato perché rispecchia i miei stili musicali e il mio percorso artistico (…) descrive ciò che volevo raccontare.” Così afferma Yusuf in un intervista a SkyTg 24.
Il risultato ha una sua dignità; diretto e prodotto dal suo storico ingegnere del suono Paul Samwell-Smith (una garanzia), il percorso musicale del cd si snoda tra episodi ampiamente orchestrali (tra echi di Paul Mc Cartney e Chaikovskij) e inaspettati riff chitarristici in bilico tra Doobie Brothers e Aerosmith, aperture gospel ed echi dei Traveling Wilburys di George Harrison (dopotutto il disco ha avuto il mixaggio finale negli studi di registrazione dell’ex beatle). Ma la maggior parte dei brani si adagia nella comfort-zone acustica nella quale Yusuf/Cat Stevens è stato sempre pienamente padrone.
Insomma, alla fine un buon lavoro fatto da ritornelli da mandare a memoria, con una chicca della quale consigliamo un attento ascolto: “Son of Mary”, un incontro tra una giovane donna mediorientale e un angelo inviato da Dio.
Panorami fiabeschi, uno sguardo attento al mondo ingenuo fanciullesco (confermato dai video dei brani e dal libretto inserito nel cd), riflessioni sull’attualità, tutti argomenti che saranno ben accolti dagli storici fans.
Basterà tutto ciò per far diventare queste nuove canzoni pilastri nella carriera di Yusuf/Cat Stevens anche nei prossimi anni? Non ci scommettiamo; ma certo, queste nuove creazioni sono un chiaro esempio di proposta di musica sincera e di qualità che difficilmente lascerà indifferente chi ascoltava per la prima volta, ormai più di mezzo secolo fa, “Wild world”.
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