Nel corso della sua ultima visita negli Usa, il presidente ucraino Zelensky è anche intervenuto all’Assemblea generale dell’Onu chiedendo, fra l’altro, di togliere alla Russia il potere di veto e quindi ponendo in dubbio il diritto al suo seggio permanente all’interno del Consiglio di sicurezza. Zelensky – con un atto politico che è apparso molto avventato – ha comunque sollevato un problema non da poco, perché i “cinque grandi” (Usa, Russia, Gran Bretagna, Cina e Francia, ovvero i vincitori dell’ormai lontano 1945 che a Yalta si spartirono il mondo), sanno benissimo che se oggi la Russia saltasse in futuro potrebbe toccare a ognuno di loro, visto che all’Onu il voto degli Usa – se non avessero il potere di veto – conterebbe in sede di votazioni come quello di Trinidad and Tobago oppure di San Marino.



Forse non tutti sanno che i 193 Paesi aderenti alle Nazioni Unite sui 206 del mondo (alcuni sono considerati Stati sovrani “de facto”, ma non sono riconosciuti come tali) partecipano a un meccanismo burocraticamente enorme, politicamente di grande rilevanza ma che spesso è privo di potere effettivo nel dirimere le controversie, tanto che questa è la principale e sempre più evidente debolezza dell’Onu.



Oltre che gli aspetti politici va ricordato infatti che l’Organizzazione segue un’infinità di attività nel mondo, dalla Fao al Fmi, dalle missioni militari a quelle umanitarie. L’Onu è diretta da un Consiglio di sicurezza composto da 15 membri, ovvero i cinque permanenti già citati e 10 non permanenti, 5 dei quali rinnovati ogni anno dall’Assemblea generale e rimanenti in carica 2 anni, in rappresentanza delle varie aree del mondo. All’Italia l’ultima presenza in Consiglio è spettata nel 2007-2008.

In base all’art. 27 della Carta dell’Onu i membri permanenti dispongono del potere di veto, che consiste nella possibilità di impedire – tramite voto contrario – l’adozione di una delibera da parte del Consiglio cui è attribuita la responsabilità principale del mantenimento della pace nel mondo sulla base del sistema di sicurezza collettiva, ma ha così poteri di natura esclusivamente conciliativa, ovvero di emettere raccomandazioni alle parti.



Il Consiglio avrebbe anche poteri di natura coercitiva in caso di minaccia alla pace mondiale o di un atto di aggressione (art. 39 della Carta) oltre all’adozione di misure preventive e di misure dirette contro gli Stati trasgressori, sia di natura economica che militare. Ma basta appunto il voto negativo di uno dei cinque “grandi” – come è successo nel caso del conflitto ucraino con il veto della Russia – perché non si possa emettere una risoluzione obbligante per tutti.

Vale per il Medio Oriente (negli anni gli Usa hanno sempre patrocinato la causa di Israele) e per i tanti conflitti locali scoppiati ovunque negli ultimi 80 anni che – purtroppo – hanno quasi sempre avuto “sponsor” che hanno precluso atti risolutivi. Piuttosto l’Onu è presente su molti scenari come forza di peacekeeping inviando proprie truppe (i “caschi blu”) per mantenere la pace, anche se va detto che negli ultimi decenni si sono di solito inviate truppe di Paesi dello stesso continente del singolo conflitto anche per motivi di budget, il che non sempre ha dato buoni risultati.

L’Onu è infatti cronicamente in crisi economica: costa caro e 40 Paesi non pagano le quote per difficoltà interne. Alla fine a pagare di più sono gli Usa, con oltre 11 miliardi di dollari (quasi il 30% del budget) seguiti dalla Cina. L’Italia è settima (con 100 milioni) e nel loro complesso i Paesi Ue versano di più degli stessi Stati Uniti.

Anche per questo, al di là dei buoni propositi, la struttura dell’Onu è logora e datata, anche perché superata dai fatti e la questione del potere di veto dei cinque grandi si sta ponendo con forza, per esempio, per l’assenza nel Consiglio di sicurezza di Paesi di importanza mondiale come l’India, il più popoloso di tutti.

Non sono poi mancati in passato i rovesciamenti di fronte. Per esempio, fino al 1971 la “Repubblica di Cina” era rappresentata da Taiwan considerata erede legittima di quella sorta nel 1912, ma da quell’anno fu riconosciuta la Cina Popolare (Pechino) come espressione di questa continuità storica, tanto che Taiwan oggi non solo non fa parte dell’Onu, ma è stupidamente ostracizzata in molte agenzie umanitarie, a cominciare dall’Oms, come molti hanno scoperto in occasione del Covid, proprio perché Pechino è durissima (e spesso ottusa) in questo senso.

A oggi, per esempio, i documenti dei cittadini di Taiwan – di fatto accettati in tutto il mondo – sono addirittura “fuorilegge” proprio all’Onu che appunto non riconosce la realtà taiwanese. Tra l’altro le due entità non si riconoscono a vicenda e così nessuno Stato può riconoscerle entrambe contemporaneamente. Di fatto oggi Taiwan è così riconosciuta come Repubblica di Cina solo da 12 Paesi Onu e dalla Santa Sede, mentre il Bhutan è invece l’unico Paese che non riconosce alcuna delle due Cine.

Al di là di questi aspetti formali il problema vero è la mancanza di potere concreto nell’applicare le “risoluzioni” del Consiglio di sicurezza e della stessa Assemblea generale, il che rende l’Onu una realtà zoppa.

Certamente, quindi, Zelensky ha messo il dito nella piaga: il mondo non è più quello del 1945.

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