Due ragazzi francesi, Pauline Janier e Kevin Siou, si conoscono mentre frequentano entrambi l’istituto di arti musicali il BIMM di Londra. Da lì il passo a mettere su una band, gli Zebrah, è breve, date le comuni passioni musicali: jazz, rock, funk, dance.
A partire dal 2018 cominciano a esibirsi ovunque gli è possibile, nei club della capitale inglese, da Notting Hills a Earl’s Court, guadagnandosi una solida dose di fan, aggiungendo al gruppo il bassista James Bannister e il batterista Chris Gyftakis. Oggi altrettanto, con le chiusure imposte dalla Brexit che pesano tantissimo anche sui musicisti, sarebbe difficile accadesse. Ma questo esperimento è un segno di speranza che comunque rimane.
Arrivano alcuni singoli, come la bella Beauty, un brano atmosferico e ipnotico dalla melodia ritmata dove la voce di Pauline tocca punte di affascinante coinvolgimento e emerge come la caratteristica principale del gruppo. Non si trovano facilmente voci del genere, soprattutto in una ragazza dalla così giovane età, capaci di esprimere un universo di emozioni.
Arriva adesso il primo ep della band, Stripes, un disco eclettico che esplora i temi dell’amicizia, della fiducia in se stessi e della conquista della consapevolezza di sé, tema quest’ultimo molto sentito dall’ultima generazione, in un mondo frammentato e dispersivo come è quello di oggi, il desiderio di trovare un centro “di gravità permanente” come diceva il nostro Battiato con la capacità e il coraggio di rischiare: “Voglio la libertà, voglio passare voglio saggezza, voglio mentire voglio amici ma passerà tutto se non continuo a cercare quello che sto per ottenere, quello in cui sto per credere (…) Ehi mamma, alcune ustioni e cicatrici lungo la strada ma a chi importa se sto bene? Non sono preoccupata, riuscirò. Faremo il tifo e mi piacerebbe che tu non fossi più attaccata a un bicchiere” canta Pauline in Hey Mama, un dialogo tra una figlia piena di voglia di vivere e una madre delusa dalla vita che si attacca all’alcol e che rimanda alle dispute generazionali, come quella celebre di Father and son di Cat Stevens. L’ep è anche una buona sintesi di ciò che la band ha suonato sul palco negli ultimi due anni irrobustendo le dosi di funk come nel singolo, l’eccitante e travolgente Hey Mama, dove sonorità black si mischiano a quelle pop con un risultato decisamente accattivante. Ma il gruppo dimostra di sapere esplorare territori diversi.
Neptune inizia con una chitarra arpeggiata, fraseggi vocali, un flauto in evidenza, l’incedere riporta alla buona vecchia psichedelia degli anni 60, è un brano quasi interamente strumentale, dove la voce di lei in lontananza recita una melodia medio orientale, cosmica.
Come on, inizio con un basso ritmato, chitarra funk, la voce che rimanda a un grande idolo di Pauline, Erykah Badu, intermezzo rappato dalle coloriture sexy, le voci di periferia, ritmica in evidenza, riff chitarristici, pause e riprese. Beautiful lady rimanda ancora a una psichedelia sognante con la bella voce dolce e rilassante di lei in evidenza.
Infine Dimension, ancora una ballata cosmica, dalle sfumature strumentali intriganti.
Gli Zebra sono una piacevole sorpresa in un mondo, quello della musica giovanile, ormai in mano alla plastificazione, alla ripetitività di produzioni studiate a tavolino dove l’apparenza conta più di ogni sostanza, dove i giovani vengono costruiti per successi istantanei che ripetono cliché senza alcuna innovazione. Soprattutto, gli Zebra sanno suonare strumenti veri: niente elettronica da quattro soldi (e niente autotune).