Milano ha così la sua Gomorra. Diciamo pure in una versione light, molto edulcorata. La Barona non è Scampia, la banda di ragazzi di colore non è un’organizzazione criminale e non ci sono spargimenti di sangue. Ma in Zero la dinamica dello scontro tra la periferia povera e abbandonata edun centro ricco oltre ogni ragionevole misura e in mano a gruppi affaristici è praticamente la stessa delle serie tv che hanno contribuito non poco a rafforzare una certa immagine negativa di città come Napoli o Roma.
Omar – il giovane protagonista con la passione per il fumetto – ha il vantaggio di raggiungere le zone più belle e facoltose della città in bicicletta. Lo fa soprattutto perché è un rider e la sera consegna pizze in appartamenti mozzafiato a ragazzi fortunati che neanche lo vedono. Per questo motivo Omar ha scelto di chiamarsi Zero, cioè meno di niente. In pratica si considera un “invisibile”. In realtà Omar – figlio di una famiglia difficile di senegalesi giunta in Italia prima che lui nascesse – invisibile può diventarlo davvero, basta che si lasci andare alle emozioni. Quando gli amici del Barrio scoprono il suo super-potere cercano di utilizzarlo con lo scopo di salvare il quartiere dal disegno speculativo di un immobiliarista senza scrupoli.
La Milano di CityLife e dei boschi verticali ci fa una pessima figura. La gioventù ricca che vi ci abita sembra avvolta in problemi inesistenti, la loro vita, trascinata tra feste ed eventi, è sostanzialmente inutile. In un clima che evoca più Moravia che la generazione Z è segnata dalla noia, e le poche emozioni sono procurate dalla droga e dal gioco. Omar entra in contatto diretto con questo mondo una sera che – mentre cercava di consegnare delle pizze – si ritrova chiuso in un attico mozzafiato di CityLife, dove esterrefatto scopre addirittura una piscina al posto del terrazzo. L’appartamento è abitato da Anna, aspirante architetta, in piena crisi sentimentale nonché figlia dello speculatore che vuole mettere le mani sul Barrio.
Nonostante sia recitato molto male, i ragazzi del cast – quasi tutti esordienti, immigrati di seconda generazione – onorano la prova e interpretano a perfezione la parte degli “italiani di fatto”, molto più rispettosi del Paese dove sono nati e vivono (maluccio) di coloro che non si fanno scrupoli a depauperarlo in ogni modo. In un certo senso, Zero è uno spot ben riuscito pro “ius soli”, ma anche una cruda denuncia di quello che ormai appare essere il fallimento più grande degli anni del “grande splendore” di Milano, e cioè lo stato delle periferie e della sua area metropolitana. Un centro città – la cosiddetta Ztl, o nel nostro caso AreaC – sempre più tirato a lucido, ma sempre meno abitato da persone normali. È questo il destino futuro di Milano? Ridursi a una piccola città di ricchi odiata da tutti coloro che ci vivono intorno?
Il racconto Non ho mai avuto la mia età di Antonio Dikele Distefano ha ispirato la serie, prodotta da Fabula Pictures e Red Joint Film per Netflix, che l’ha distribuita in contemporanea in 190 Paesi da mercoledì 21 aprile. Ne cast giovani attori con alle spalle già primi apparizioni, anche se non di questa importanza. Da segnalare il padovano Giuseppe Dave Seke nel ruolo di Zero/Omar, l’attrice e cantante romana Beatrice Grannò nel ruolo di Anna e Daniela Scattolin (Tolo Tolo, L’ora – inchiostro contro piombo) nella parte di Sara, che gestisce la piccola sala di registrazione del quartiere.
Nella colonna sonora dominano le canzoni di Marracash e Mahmood, e di molti altri artisti della new vague milanese.
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