Con il cambiare delle comunicazioni sociali e personali cambia di conseguenza il gesto di raccontare. Nel 2015 su Twitter appare una serie di tweet che raccontano una rocambolesca vicenda, a quel thread (la serie di post e discussioni a partire da un unico tema) e ai protagonisti coinvolti Rolling Stone ha dedicato un articolo e da quell’articolo è nato Zola, o @zola, film che è stato un piccolo caso del mondo indie statunitense, opera seconda della regista Janicza Bravo.



Protagonista è la Zola del titolo (Taylour Paige), cameriera che viene coinvolta in un tour di pole dance dalla ballerina Stefani (Riley Keough); nel tour ci sono anche X (Colman Domingo), impresario, ma in realtà una sorta di protettore, e Derrek (Nicholas Braun), e non si tratta di un semplice giro di locali per ballare, ma sarà un viaggio paradossale tra le pieghe della prostituzione Usa.



Bravo, assieme Jeremy O. Harris, parte dall’articolo di David Kushner e dai tweet di Asiah King – la vera Zola – per scrivere una commedia drammatica che sceglie la via dell’originalità insistita e ricercata per rendere con le immagini la frammentarietà del nuovo modo di raccontare e raccontarsi che i social network hanno portato con loro e al tempo stesso cercare uno sguardo adeguato alla messinscena del sesso e dei corpi nell’epoca in cui il porno è divenuto di massa e il sesso a pagamento materia virale.

Niente di futuristico, anzi, Zola vuole riconnettersi con un modo di fare cinema e costruire immagini che sembra venire da un’altra epoca e che cerca un altro mondo rispetto allo squallore del racconto: colori pastello impressi in pellicola dal direttore della fotografia Ari Wegner, note fiabesche e oniriche a puntellare ironicamente set e luoghi disperate, la rilettura del cinema dedicato al White trash, ovvero i bassifondi sociali bianchi, e alla sottocultura gangsta di origine afroamericana, attraverso elementi estetici che ribaltino la povertà e al contempo ne diano una visione critica. E, soprattutto, Bravo riesce a concepire e comporre un’idea di racconto per immagini perfettamente consapevole della natura digitale da cui quel racconto nasce: Instagram, Twitter, Snapchat e andando avanti di app in app, la regista riesce a spezzare di continuo il ritmo, creando però un andamento che renda organico lo spezzamento, i colori e i filtri sono usati con inventiva elegante, i suoni e le musiche di Mica Levi si mescolano in un flusso sonoro perfetto per l’epoca dello scrolling su TikTok.



Questa complessa e raffinata elaborazione di stili, permette al film di poter affrontare il proprio tema senza cadere nelle trappole che argomenti come la prostituzione aprono sotto i piedi di chi li maneggia: lo sguardo femminile e il modo alternativo di concepire le sequenze e le inquadrature permettono alla regista di smitizzare la prostituzione, di toglierle di dosso la tragicità moralistica con cui sempre è raccontata e al tempo stesso di mostrare i corpi delle attrici senza morbosità, ma ragionando ironicamente sulla vacuità della perfezione, ribaltando anche gli statuti di verità che in automatico associamo ai racconti in prima persona.

Zola (disponibile a noleggio su tutte le piattaforme) è davvero una sorpresa avvincente e a tratti illuminante, che usa la frivolezza per generare pensiero, che lavora su inquadrature che esplorano il potenziale dell’immagine come oggetto e afferra così il senso profondo, inquietante o ispiratore dipende dagli usi che se ne fanno, dei nuovi media, il loro rapporto cangiante con la parola, il pensiero, la concretezza dei gesti. Che tutto passi dal sesso e dall’erotismo, più che un segno dei tempi, è una riflessione sugli esseri umani (maschi, di solito).

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