Giuseppe Conte e Roberto Speranza vorrebbero attribuire alle Regioni la responsabilità delle mancate zone rosse nella Bergamasca all’inizio dell’emergenza Covid. Un’informativa dei carabinieri di Bergamo, finita in procura, smentisce Giuseppe Conte e Roberto Speranza, all’epoca rispettivamente premier e ministro della Salute. Lo rivela La Verità, spiegando che dalle carte emerge che quella misura di contenimento, che poteva limitare l’impatto del coronavirus, sarebbe stata bloccata proprio dal governo M5s-Pd, anche su impulso di alcuni esponenti dem lombardi. Le carte risalgono al 6 aprile 2020 e contengono un sunto di materiale proveniente da un’altra inchiesta riguardante questioni migratorie in cui il sindaco dem Giorgio Gori era intercettato. Così gli inquirenti si sono imbattuti quasi casualmente in una serie di informazioni sulla gestione della pandemia, per cui hanno girato tutto ad altri colleghi. La Verità aggiunge che il materiale non è però entrato nell’inchiesta sulla pandemia condotta dalla stessa procura di Bergamo.



L’informativa riporta le preoccupazioni di Gori: da un lato evitare che il Covid dilagasse, visto che arrivavano brutte notizie dagli ospedali, dall’altro scongiurare la chiusura delle attività produttive. Ma il 23 febbraio lui e Massimo Giupponi, direttore dell’Ats, erano concordi nel ritenere eccessivo fermare tutto. Invece, Regione Lombardia era intenzionata ad adottare una linea dura. Quindi, si intensificava il pressing delle aziende e, stando alla ricostruzione della Verità, il sindaco di Bergamo aveva iniziato a «coinvolgere gli esponenti piddini della zona: da Maurizio Martina, ex ministro dell’Agricoltura e originario di Calcinate, fino al viceministro dell’Economia, Antonio Misiani, nato e cresciuto nel capoluogo».



EMERGENZA COVID, LA LINEA DI CONTE E FONTANA

Dalle annotazioni degli inquirenti emerge che i vertici di Regione Lombardia «insistevano per interventi energici, il governo cincischiava». Infatti, Misiani il 26 febbraio al telefono con Gori avrebbe spiegato che le misure di contenimento adottate in Lombardia, come la chiusura anticipata delle attività, non avevano senso e che riteneva andassero eliminate le restrizioni. Il sindaco di Bergamo avrebbe provato a sensibilizzare il collega dem, visto che aveva appreso dal fratello Andrea, medico, che «se entro due settimane non ci sarà un rallentamento dei contagi, tutte le forze dovranno essere dirottate sul potenziamento degli ospedali». Al telefono con il fratello infettivologo, Gori apprendeva che da Roma facevano pressioni ad Attilio Fontana per riaprire le attività. Andrea Gori era convinto della necessità di provvedimenti di contenimento, affermando che «anche Fontana è su questa linea, al contrario di Roma (governo)».



Il 3 marzo, infatti, Misiani gli avrebbe riferito che secondo Speranza Bergamo doveva essere al riparo dalla zona ressa, anche se andava istituita «al più presto perché i contagi stanno dilagando». Ma la zona rossa nella Bergamasca non è mai scattata. Due giorni dopo quella conversazione, carabinieri, poliziotti, finanzieri e militari erano in zona in stato di allerta per la stretta che non arrivò. Il fratello di Giorgio Gori il 5 marzo con un conoscente, forse un impiegato della Regione Lombardia secondo gli inquirenti, sosteneva che «l’unico a essere lucido in merito alla gravità della situazione è il presidente Fontana, che riportava l’esatta criticità degli eventi al governo. Sembra però che lo stesso governo non abbia recepito appieno il messaggio nonostante Fontana si sia rapportato con loro in maniera diretta».

“GIUSEPPE CONTE HA RISO IN FACCIA AD ATTILIO FONTANA…”

Intanto, negli ospedali i medici usavano i respiratori in base alla fascia d’età, quindi sceglievano tra chi poteva vivere e morire. Non a caso, Gori avrebbe rivelato alla deputata dem Elena Carnevale che secondo lui «il presidente del Consiglio Conte non vuole assumersi questa responsabilità». Ne avrebbe parlato il 6 marzo con lo stesso Fontana, che gli avrebbe ribadito di aver richiesto le chiusure, senza aver ricevuto risposta da Roma. Gori con l’omologo di Milano Beppe Sala si sarebbe poi confidato facendo presente «che ormai la situazione bergamasca è sfuggita di mano e che non ha quasi più senso fare zona rossa la Val Seriana in quanto il virus si è diffuso in larga scala». In pratica, si era chiusa la finestra di opportunità. Lo stesso Sala, in un’altra conversazione, raccontava di averne parlato col ministro della Cultura Dario Franceschini, che però «non era a conoscenza su quanto stava avvenendo in Lombardia».

Successivamente inizia lo scaricabarile, ma Enrico Pazzali, presidente della Fondazione Fiera Milano, ha difeso l’operato del governatore Attilio Fontana, comunicando a Gori che era stata chiesta la stretta da una settimana, ma Conte avrebbe «riso in faccia» a Fontana. Il manager ha rivelato «di avere assistito alle conversazioni telefoniche», aggiungendo che «solamente la comunicazione avvenuta tra il presidente Fontana e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al quale venivano riferiti i dati delle proiezioni di contagi, ricoveri e decessi, faceva sì che il presidente Conte adottasse misure più restrittive». Infatti, il governo chiuse la Lombardia prima di optare per il lockdown totale.

“VIOLATO IL DIRITTO ALLA SALUTE E ALLA VITA”

«Oltre a quanto già emerso dall’indagine chiusa dalla Procura della Repubblica di Bergamo, questi documenti aggravano la posizione di chi poteva e doveva decidere tempestivamente la chiusura della Val Seriana e della Bergamasca e invece ha deciso di non intervenire», dichiarano a La Verità gli avvocati Piero Pasini e Consuelo Locati, esponenti del gruppo di legali che assiste circa 630 familiari delle vittime Covid in causa davanti al Tribunale civile di Roma. I legali ritengono che la scelta del governo sia stata quella di «tutelare l’economia e gli interessi economici degli imprenditori più importanti bergamaschi, violando e ledendo il diritto costituzionalmente garantito alla salute e alla vita». Questi documenti, aggiungono, «confermano ulteriormente la fondatezza delle domande svolte dai familiari delle vittime in causa avanti il Tribunale di Roma». I legali si chiedono «come si possa ancora resistere in giudizio negando fatti acclarati e, ancor peggio, negando le responsabilità che ormai sono sempre più incontestabili. Nel Regno Unito si chiede scusa, in Italia si nega e si archivia».